L’obesità è un fenomeno dilagante nel nostro, oramai
minuscolo, pianeta. Una vera e propria pandemia.
Paradossalmente, non riguarda solo le società e le
classi sociali più ricche, sviluppate e opulente ma
anche le popolazioni più povere e incolte. Non risparmia
neppure i Paesi in via di sviluppo dove incredibilmente
si muore ancora di fame e insieme di diabete. L’obesità
non è conseguenza dell’abbondanza quanto piuttosto della
miseria e dell’ignoranza. E’ soprattutto il primo
segnale di una crisi metabolica che sta avvelenando
l’intero organismo. Si tratta della condizione che ha
prodotto l’emergenza sanitaria dalle dimensioni più
grandi, impensabili e incontrollabili che l’umanità si
sia mai trovata a fronteggiare. Ben lontano dall’essere
meramente un fatto estetico, il sovrappeso è l’evidenza
di gravi problemi per la salute che stanno affiorando.
L’insieme di malattie provocate dalle alterazioni del
metabolismo degli zuccheri prende appunto il nome di
Sindrome Metabolica ovvero la dolce catastrofe
dell’umanità.
La
catastrofe sanitaria
Come si
è detto l’accumulo di grasso nel corpo evidenzia un
tilt metabolico che sta già producendo gravi
conseguenze per la salute e che, se non verrà
rapidamente arrestato, continuerà a danneggiare
l’organismo provocando in modo lento ma inesorabile,
danni irreparabili. Mi rendo conto mentre scrivo queste
parole quanto possano suonare eccessive o azzardate, ma
se avrete la pazienza di seguire quanto vado
illustrando, capirete che si tratta della descrizione,
ahimé, fedele della realtà. Provate a immaginare il
costo sociale di un quarantacinquenne, con spettanza di
vita statistica di altri trent’anni, che sviluppa
ipertensione e diabete con le relative complicanze.
Quante ore di assenza dal lavoro, quante spese in visite
mediche, analisi, farmaci, ricoveri ospedalieri - in
crescendo con l’aumentare dell’età - finché con buona
pace della sua anima lascerà questa valle di lacrime? Le
malattie metaboliche, in progressivo aumento anche in
rapporto all’innalzamento della vita media della
popolazione, rappresentano la causa primaria di
morbilità e mortalità. In Italia, col 40% dei casi –
250.000 decessi - la Sindrome Metabolica è la prima
causa di morte. Metà della popolazione italiana è
sovrappeso, mentre il numero degli obesi nel nostro
paese corrisponde a quattro - cinque milioni di
persone. I costi socio-sanitari dell’obesità hanno
superato negli Stati Uniti i 100 miliardi di dollari
all’anno, mentre in Italia si aggirano intorno ai 23
miliardi
di euro.
Malattia del progresso?
No, nel
modo più assoluto. L’archeologia ben ci dimostra come
l’insorgenza delle malattie metaboliche coincida
perfettamente con la scoperta dell’agricoltura e come in
precedenza i nostri preistorici antenati ne fossero
immuni. Le mummie di cui gli Antichi Egizi ci hanno
lasciato milioni di esemplari evidenziano come 4 - 5000
anni fa carie, diabete, malattie cardiovascolari,
obesità e tumori affliggessero l’umanità esattamente
come adesso. L’agricoltura infatti assieme al frutto
insostituibile della civiltà ha introdotto
nell’alimentazione umana cibo non idoneo, al quale la
nostra specie – dato il brevissimo tempo intercorso –
non si è ancora adattata. Una discordanza evolutiva,
come la definisce il prof. Cordain, della quale ancora
oggi stiamo pagando le conseguenze.
La
nostra storia evolutiva
Per due
milioni e mezzo di anni l’animale homo è stato
cacciatore - raccoglitore, specializzato come divoratore
di carogne. Non essendo dotato di zanne né di artigli il
suo cibo era costituito dalle carcasse di erbivori
lasciate dai grandi felini, da uova, insetti, molluschi,
bacche e radici. Di conseguenza la sua fisiologia si è
sviluppata ed evoluta in base a un’alimentazione scarsa
di zuccheri, ricca invece di proteine animali, vitamine
e fibre vegetali. I margini di sopravvivenza erano un
tempo molto ridotti ma la salute dei superstiti
eccellente. Poi, solo diecimila anni fa, un soffio in
termini evolutivi, l’invenzione dell’agricoltura ha
drasticamente cambiato le nostre abitudini alimentari,
introducendo quantità di zuccheri eccessive e dannose
(ma facili da conservare) per le quali il nostro
organismo non era e non è tuttora predisposto. Così i
più hanno avuta garantita la sopravvivenza sia pure a
spese della salute. La nostra specie è divenuta
stanziale, la popolazione ha cominciato ad aumentare,
sono sorte le prime città e la storia del genere umano
ha avuto inizio. Con grandi sofferenze e tribolazioni
come ci ricorda la Bibbia. Oggi più che mai la
situazione sanitaria sta degenerando oltre misura per
due motivi:
1.
la fine dopo 10.000 anni dell’agricoltura estensiva e il passaggio
all’industria avvenuto negli ultimi anni del 1700 hanno
portato ad un ancora più massiccio e progressivo
inurbamento (attualmente più della metà del genere umano
vive nelle città) con impoverimento ulteriore del cibo e
delle condizioni di vita.
2.
L’innalzamento della durata dell’esistenza ha evidenziato problemi di
salute che in un’aspettativa di quarant’anni di vita non
avevano praticamente il tempo di manifestarsi.
Il
fallimento delle diete
Già da
molti decenni la consapevolezza della portata del
problema ha spinto a ricercarne le cause nell’eccessivo
consumo di grassi alimentari. Molto semplicisticamente
si è formulata l’equazione: più grassi presenti
nell’organismo uguale a più grassi introdotti. Questo ha
portato a raccomandare diete a basso tenore lipidico, un
modello di nutrizione penetrato profondamente nella
cultura alimentare occidentale che ha tenuto banco per
almeno quarant’anni. L’industria ha prodotto alimenti
“leggeri”, “a grassi 0”, che la popolazione
ha consumato in massa. Una strategia che non ha risolto
anzi ha fortemente aggravato i problemi della salute
fino alla pandemia di obesità cui stiamo oggi assistendo.
Le diete sviluppate in questo periodo vertevano
essenzialmente su due capisaldi, la riduzione dei lipidi
appunto e la restrizione calorica. Anche se studi oramai
generalmente accettati testimoniano come una riduzione
dell’energia introdotta sia predisponente al
prolungamento dell’esistenza (più avanti vedremo perché)
è sfuggito il fatto che nessun animale sulla faccia
della terra accetta volontariamente la fame e la
privazione. La fame per gli esseri viventi è un segnale
negativo voluto dalla natura per garantire la
sopravvivenza. Di conseguenza anche se la restrizione
calorica produce diminuizione di peso (e solo in parte
di grasso) non può essere sostenuta a lungo e
inevitabilmente la routine viene rotta per
un’appropriata compensazione che porta a mangiare di più
nonché all’attivazione di processi metabolici che con
maggior facilità ci portano ad accumulare ancora più
grasso. Ma soprattutto ridurre i lipidi alimentari ha
portato ad un incremento degli zuccheri assunti in loro
sostituzione, aggravando la situazione. In pratica si è
consigliata come soluzione proprio la causa stessa del
problema. Le diete tuttora in massima parte prescritte
non sono idonee perché:
·
sostituiscono i grassi con gli zuccheri aggravando lo stress metabolico
·
impongono una notevole restrizione calorica rendendosi nel tempo
impraticabili.
Gli
occhi bendati della scienza
Il
ritardo con cui la scienza ufficiale stenta a rendersi
conto della situazione va probabilmente individuato
nell’eccessiva specificità della ricerca. Molto
probabilmente un approccio multidisciplinare avrebbe
consentito una valutazione più immediata. La fisiologia
non può ignorare la genetica, la biologia e
l’archeologia devono andare a braccetto, la medicina non
può prescindere dalla storia e soprattutto dalla
preistoria. Curiosità, intuito, creatività e cultura
dovrebbero essere patrimonio di ogni ricercatore.
Qualcuno non a caso ha parlato di serendipità che
lo scienziato - come i tre principi del racconto di
Cristoforo Armeno - dovrebbe possedere. Adesso si
indagano le possibili cause genetiche e molecolari
dell’obesità per produrre nuovi farmaci, ma i farmaci
devono essere l’ultimo presidio cui fare ricorso: se il
problema è di natura alimentare lo si previene e risolve
banalmente intervenendo sull’alimentazione. Almeno
finché si è in tempo. Ma questo ovviamente suona
sgradito alle case farmaceutiche che sono i maggiori
sponsor delle ricerche stesse.
GC |
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